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CHE COS’È IL PATTO DI PROVA?

CONTENUTO, DURATA, ONERE DELLA PROVA, CONSEGUENZE DEL RECESSO DATORIALE ILLEGITTIMO.

L’art. 2096 c.c. e le sue applicazioni pratiche.

Datore di lavoro e dipendente possono decidere di inserire nel contratto di lavoro il cd. patto di prova.

Si tratta di una clausola speciale prevista dall’art. 2096 c.c. con cui le parti concordano che la fase iniziale del rapporto di lavoro abbia un carattere non definitivo, ma subordinato all’esito positivo della prova stessa.

La finalità di questo patto, che è accessorio al contratto di lavoro, è tutelare l’interesse di entrambe le parti contrattuali di sperimentare la reciproca convenienza al contratto (cfr. Cass. 8759/2004; Cass. n. 13498/2003 e Cass. n. 3451/2000), di guisa che tutte quelle volte in cui venga eluso tale scopo si avrà un patto illegittimo.

In proposito la nota sentenza della Corte di Cassazione n. 8759/2004 afferma che “Il patto di prova deve ritenersi illegittimamente apposto quando non sia funzionale alla sperimentazione della reciproca convenienza al contratto, per essere questa già intervenuta, con esito positivo, attraverso lo svolgimento di un precedente rapporto di lavoro tra le parti, avente ad oggetto le medesime mansioni (arg. ex Cass., 24 luglio 1990, n. 7493; Cass., 7 dicembre 1998, n. 12379 ed altre), e ciò vale, a maggior ragione nel caso di specie in cui la clausola di prova è stata apposta unilateralmente ad un rapporto immediatamente succeduto ad altro precedente, senza soluzione di continuità, e con il mantenimento della medesima qualifica, oltre che dell’anzianità di servizio già maturata” (conformi Cass. 22637/2004, Tribunale di Milano 11/4/2006, Tribunale di Pavia 26/1/2003 e nel caso in cui tra le parti siano intervenuti uno o più rapporti di lavoro a termine Cass. n. 4635/2016).

Durante il periodo di prova le parti le parti sono libere di recedere dal contratto senza preavviso in qualunque momento (Trib. Moedena 6/6/2002), salvo che non sia previsto un periodo minimo per la durata della prova stessa, e la Suprema Corte ha chiarito che il licenziamento per mancato superamento del patto di prova si esplica “senza obbligo di fornire al lavoratore alcuna motivazione” (Cass. n. 23224/2010 e Cass. n. 2228/1999), salvo che un obbligo in tal senso sia imposto dalla contrattazione collettiva (Cass. n. 19558/2006).

Il patto di prova deve essere sottoscritto dal lavoratore unitamente al contratto di lavoro e, in ogni caso, prima che abbia inizio la prestazione lavorativa oggetto di contratto (Cass. n. 25/1995).

Il 1° comma dell’art. 2096 c.c. stabilisce che il patto di prova deve avere forma scritta e la giurisprudenza di legittimità è ormai pacificamente orientata nel ritenere la forma scritta del patto a pena di nullità (ex multis Cass. n. 11122/2002, Cass. n. 55632/2002, Cass. n. 5591/2001, Cass. n. 12673/1997, Cass. n. 5811/1995).

 

IL CONTENUTO DEL PATTO DI PROVA E LA CONSEGUENTE NULLITÀ.

La clausola che stabilisce il patto di prova deve contenere l’indicazione specifica (e non generica)  delle mansioni affidate al prestatore di lavoro (cfr. Cass. n. 13455/2006, Cass. n. 427/2005,  Cass. n. 13498/2003, Cass. n. 13525/2001, Corte d’Appello di Roma 1/3/2006).

La giurisprudenza è pacifica nel ritenere che la prova deve avere ad oggetto compiti esattamente identificati sin dall’inizio dal datore di lavoro (ex multis Cass. n. 21698/2006, Cass. n. 17045/2005, Cass. n. 19279/2004, Cass. n. 15307/2001, Cass. n. 15473/2000), da un lato per garantire che il lavoratore abbia contezza delle mansioni che dovrà svolgere, per le quali dovrà dimostrare le proprie attitudini, e sulle quali verrà valutato; e dall’altro per evitare che la valutazione del datore di lavoro si formi in merito allo svolgimento di mansioni che non competano al dipendente.

Infatti il datore di lavoro non può avvalersi del patto di prova se egli fonda le proprie valutazioni su mansioni diverse da quelle individuate nel patto di prova (Cass. n. 2357/2003) o su mansioni non previste nel patto di prova ma ugualmente assegnate al lavoratore (Cass. n. 15432/2001).

Pertanto in caso di mancata specificazione delle mansioni oggetto della prova, il patto verrà dichiarato affetto da nullità con le conseguenze che vedremo.

Talvolta la specifica individuazioni delle mansioni può essere effettuata anche per relationem alla qualifica di assunzione, in altri termini quando il contratto collettivo di riferimento indichi, per tale qualifica, le mansioni cui può essere adibito il lavoratore (Cass. n. 1957/2011, Cass. n. 11722/2009 e Cass. n. 13455/2006). In proposito, nella recente sentenza n. 427/2005 la Corte di Cassazione ha chiarito che: “”.Con riguardo al patto di prova apposto al contratto di lavoro va precisato che deve risultare da atto scritto e deve contenere l’indicazione specifica delle mansioni da svolgere, in relazione alle quali il datore di lavoro dovrà formulare le proprie valutazioni sull’esito della prova. A tal fine, il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva basta ad integrare il requisito della specificità dell’indicazione delle mansioni solo se rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli professionali, il richiamo contenuto nel patto di prova è fatto alla nozione più dettagliata”. Ciò significa quindi che se il CCNL di riferimento comprende nel medesimo livello molteplici profili professionali, occorre indicare espressamente lo specifico profilo professionale a cui si fa riferimento.

LA DURATA DEL PATTO DI PROVA.

Altro requisito necessario in termini di validità del patto è la predeterminazione della durata del periodo di prova.

Mentre non c’è un termine minimo di durata, sul termine massimo di durata occorre fare alcune precisazioni.

L’art. 10 della L. 604/1966 (legge sui licenziamenti individuali) sancisce con norma imperativa che la durata massima del periodo di prova del lavoratore non può superare i 6 mesi per tutti i lavoratori, mentre per gli impiegati non aventi funzioni direttive l’art. 4 RDL 1825/24 fissa il termine di 3 mesi (sull’applicazione del RDL 1825/21 v. Cass. n. 24282/2008).

Tuttavia , qualora la contrattazione collettiva stabilisca termini inferiori , si dovrà fare riferimento a quelli (Cass. n. 13700/2000).

 

RECESSO ILLEGITTIMO E ONERE DELLA PROVA IN GIUDIZIO.

Abbiamo detto sin qui che il rapporto di lavoro subordinato costituito con il patto di prova è caratterizzato dal potere del datore di lavoro di recedere in qualunque momento durante il periodo di prova (salvo che non sia stata stabilità una durata minima garantita) senza obbligo di motivazione, né obbligo di dare preavviso o di pagare la relativa indennità sostitutiva.

Tuttavia, la discrezionalità del datore di lavoro non è assoluta, anzi incontra dei limiti di natura giurisprudenziale che possiamo sinteticamente elencare.

Quando il recesso del datore di lavoro è illegittimo?

  • Quando il datore di lavoro non abbia effettivamente e concretamente consentito la prova al lavoratore: es. quando la prova ha avuto ad oggetto mansioni diverse da quelle individuate nella lettera di assunzione (Cass. n. 27310/2005); oppure quando il lavoratore non è stato posto nelle condizioni di sostenere la prova per omessa concreta attribuzione delle mansioni (Cass. n. 1387/2000).
  • Quando la prova è stata superata positivamente dal lavoratore: es. il datore di lavoro prima del recesso comunica al lavoratore il superamento della prova o ricorono altri elementi attestanti il superamento della prova.
  • Quando il licenziamento è riconducibile ad un motivo illecito (es. discriminatorio) con conseguente invalidità del licenziamento stesso ex art. 1345 c.c., o estraneo al rapporto di lavoro. In tale seconda ipotesi il giudice di merito dovrà valutare “la giustificatezza in termini non dissimili dal giustificato motivo oggettivo di licenziamento in regime di recesso causale” al fine di accertare l’idoneità o meno del recesso del datore di lavoro (Cass. n. 1762/2000 e conformi Cass. n. 10305/1998 e Cass. n. 402/1998).

Sul punto però è opportuno richiamare anche la sentenza n. 948/2001 della Suprema Corte che ha chiarito che “Il potere discrezionale del datore di lavoro di recedere nel corso del periodo di prova è legittimamente esercitato quando rifletta l’accertamento e la valutazione non soltanto degli elementi di fatto concernenti la capacità professionale del lavoratore, ma anche degli elementi concernenti il comportamento complessivo dello stesso, quale è desumibile anche dalla sua correttezza e dal modo in cui si manifesta la sua personalità”.

Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla Corte di Cassazione, aveva ritenuto idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro la dichiarazione mendace resa dal lavoratore all’epoca di presentazione della domanda di assunzione riguardo all’assenza di precedenti penali.

  • L’inadeguatezza della durata del periodo di prova (Cass. n. 6182/1996).

L’onere di dimostrare l’illegittimità del recesso grava sul lavoratore (Corte Cost. n. 189/1980 e Cass. n. 2228/1999).

Sull’argomento è illuminante la recente sentenza del Tribunale di Roma Sez. Lavoro del 3/1/2022, che afferma che “Il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso; incombe, pertanto, sul lavoratore licenziato, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l’onere di provare, secondo la regola generale di cui all’art. 2697 cod. civ., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova”.

 

LE CONSEGUENZE DEL RECESSO DATORIALE ILLEGITTIMO.

Quanto alle conseguenze di un recesso illegittimo da parte del datore di lavoro esse sono di matrice giurisprudenziale e possiamo individuare i seguenti regimi:

 a) il recesso datoriale illegittimo non comporta l’applicazione della normativa sui licenziamenti ma risultano utilizzabili i soli rimedi risarcitori ordinari, di guisa che il lavoratore avrà solo il diritto di ottenere il pagamento della retribuzione per il periodo di prova residuo (Cass. n. 11934/1995). In proposito la Suprema Corte ha statuito nella recente sentenza n. 31159/2018 che “il lavoratore avrà esclusivamente diritto al ristoro del pregiudizio sofferto; pertanto una volta accertata l’illegittimità del recesso stesso consegue – anche laddove sussistano i requisiti numerici – che non si applicano la L. n. 604 del 1966 o la L. n. 300 del 1970, art. 18, ma si ha unicamente la prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato oppure il risarcimento del danno, non comportando la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito (in termini Cass. n. 2228 del 1999; in precedenza v. ex plurimis: Cass. n. 233 del 1985, Cass. n. 1250 del 1985, Cass. n. 11934 del 1995)”.

b) al lavoratore spetta il risarcimento del danno per responsabilità contrattuale del datore di lavoro, non essendo applicabile al lavoratore in prova il diritto alla reintegra del posto di lavoro (Cass. n. 7821/1987).

 c) nel caso di recesso da un rapporto in prova instaurato con soggetti avviati obbligatoriamente, risulta invece utilizzabile l’istituto della reintegrazione giudiziale, qualora l’esperimento non sia stato effettuato «con mansioni confacenti alla menomazione dell’invalido ed alla sua residua capacità lavorativa» (Cass. n. 1104/1989).

d) nel caso di recesso illegittimo, perché determinato da motivi illeciti, si applica l’art. 18 st. lav., così come modificato dall’art. 3, L. 108/1990, indipendentemente dal numero dei lavoratori occupati nell’unità produttiva o a livello di impresa (Cass. n. 11735/1997). Quindi al lavoratore spetterà la tutela reale quando egli dimostri che il recesso è avvenuto non per mancato superamento della prova, ma per altri motivi, illeciti o comunque estranei alla prova (Corte d’Appello Venezia 3/2/2011 e Trib. Barcelona P.G. 20/11/2007).

e) In caso di recesso datoriale irrogato durante un periodo di prova illegittimamente apposto (es. periodo di prova pattuito tra parti tra cui vi era stato un precedente rapporto di lavoro avente ad oggetto le stesse mansioni) trova applicazione il regime di tutela correlato ai requisiti dimensionali e, comunque, quello spettante al lavoratore in base alla L. 604/1966 e all’art. 18 Stat. lav. (Cass. n. 17921/2016).

 

 

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